25 Dicembre 2024

Pubblico? sì, grazie!

In un recente articolo di Fittipaldi su L’Espresso, leggiamo un quadro disarmante: gli italiani non spendono più in cultura. Oltre a quello statale, si apre quindi un altro fronte. Come possiamo portare più gente ai nostri spettacoli?

Ecco l’articolo: Dante: ma chi è?

Comments

  1. Ok problema pubblico, da approfondire. Altro aspetto da approfondire parallelamente: c’è tanto pubblico nella mostre di arte, anche iper-contemporanee e super concettuali. Tant’è che Crt azzerato, viene inglobato alla Triennale. Allora c’è da chiedersi se il pubblico sia stanco di andare a teatro a vedere la stessa programmazione. L’esperienza dei “teatri-abitati” di Vendola in Puglia ha ravvivato lo scenario: servono queste scelte coraggiose, lasciando i teatri alle giovani compagnie coraggiose, anche di ricerca. Il pubblico è pronto a vedere cose nuove da tanto tempo. E come me, a volte anzichè andare a teatro, preferisce una mostra per la certezza di assistere a spunti diversi e nuovi. Allora la prossima volta, il Crt lasciatelo a Noi!

  2. http://espresso.repubblica.it/dettaglio/dante-ma-chi-e/2126520/8

    Vi copio qui il link per leggere on line l’articolo di cui parla Giovanni.
    Sono d’accordo con Giuseppe nell’osservare che non tutta la cultura è disertata da pubblico, ma solo quella che si fa in teatro, e soprattutto la danza…grandi nomi a parte.
    E’ vero che le politiche culturali del nostro paese non sono state sicuramente d’aiuto per le sorti del nostro lavoro e del nostro sudore, ma lancerei una provocazione invitando la nostra categoria ad un esame di coscienza. So che quello che scriverò non sarà condiviso da molti, ma io credo che proprio la danza in particolar modo, a partire dagli anni ottanta, abbia cominciato un cammino vesro l’autoreferenzialità, il concettualismo a tutti i costi, e si sia crogiolata nell’idea di essere un linguaggio sofisticato e diretto a pochi. Tante volte io stessa sono andata a vedere spettacoli che non ho capito e che non mi hanno coinvolta. Nessuno si è mai preoccupato vedendo nelle platee sempre più addetti ai lavori e sempre meno pubblico, mentre quello secondo me è il segnale che deve preoccupare. Se nessuno è interessato a vedere i nostri lavori noi non abbiamo ragione per produrli.
    Io penso che dovremmo tutti chiederci un pò quale posto vogliamo occupare nella comunità, in che modo, e se la strada che stiamo seguendo è la migliore.
    Ha ragione giovanni.Cerchiamo di coinvolgere più persone possibili nelle nostre iniziative, facciamo in modo che tornino ad amare il teatro e la danza, ripopoliamo le sale. E contemporaneamente lottiamo per una politica che riconosca questo ruolo così importante che l’arte ha all’interno di una società che si considera evoluta come quella europea, della quale -vorrei ricordare- l’Italia fa parte.

  3. Davvero Lia trovi che la danza contemporanea nostrana sia concettuale? Allora mi chiedo perchè l’arte concettuale abbia fatto storia e venda opere a milioni di euro e la danza concettuale non dovrebbe riuscire a fare pubblico. La mia opinione è che la danza italiana sia tendenzialmente non concettuale (spesso del tutto priva di concetti!) e molto manieristica. Mi baso su quello che passa in convento nei teatri, ovviamente. Forse il pubblico se ne accorge e diserta le sale, o forse è semplicemente incollato alle fantastiche novità del digitale terrestre. Altrove (Europa, New York sono le platee che conosco un po’ di più) il concettuale funziona, ma perchè è il risultato di una ricerca vera, fatta anche con pochi soldi, ma genuina.

  4. la penso esattamente come te, solo che è sempre difficile esprimersi in modo adeguato con un commento. Ho scritto infatti “concettuale a tutti i costi” , per dire che quello italiano è spesso un concettualismo vuoto e privo di una vera sostanza. Non voglio giudicare in modo aggressivo e superficiale, e quindi non sapevo come dirlo senza che nessuno si sentisse offeso, ma molte volte quello che vedo è questo: un finto concettualismo basato su idee vaghe e senza forza, con una totale sudditanza all’estetismo e poca onestà artistica. Questo secondo me allontana il pubblico….o almeno allontana me.
    Per quanto riguarda il successo delle mostre di arte visiva, beh, io credo che comunque sia meno responsabilizzante andare ad una mostra piuttosto che a teatro. Innanzitutto, una volta dentro ad una esposizione d’arte, sei tu che decidi cosa guardare e per quanto tempo, sei indipendente nei movimenti, mentre a teatro sei sicuramente più partecipe come spettatore, hai una responsabilità maggiore forse. E poi il trend adesso è questo….sono stata per anni a vedere la biennale di venezia, giusto per citarne una, ma non ho mai visto tanta gente come negli ultimi anni…. quando ho cominciato a frequentare questa esposizione c’erano solo studenti delle accademie e appassionati d’arte….adesso c’è il boom dell’arte visiva contemporanea. Potremmo osservare come i curatori si sono mossi per creare tutto questo interesse, per capire come hanno fatto. Certo è che l’arte visiva smuove grandi quantità di denaro. Nonostante la crisi il mercato delle opere d’arte è uno dei pochi che ha incrementato il suo movimento, parlando di arte in generale, quindi sia contemporanea che antica. Ci sono tante considerazioni da fare, ma non voglio essere prolissa e noiosa, ma è una discussione, questa, molto interessante.

  5. Susan Rethorst sosteneva durante il workshop che il performer non deve ‘preoccuparsi’ di far capire al pubblico. Il pubblico ‘leggerà’ da solo il senso del lavoro del performer (e va anche bene se il senso sarà diverso dall’intenzione iniziale). Poi ci sono i gusti che, fortunatamente, ci rendono diversi. Dunque si ritorna al mio punto cruciale: più spazio per tutti e per tutto! Se devo seguire il filo del vostro discorso sugli stili predominanti in Italia, sinceramente è il teatro-danza (scopiazzato bene o male dalla tedesca Pina) che impera! E pensare che a Berlino l’hanno superato.

  6. Ahahah! hai sintetizzato bene…riguardo alle dichiarazioni di Susan Rethorst sono d’accordo fino ad un certo punto, ma come dici tu sono punti di vista. Credo che il “vale tutto” non sia la strada giusta. Il pubblico è libero di interpretare quello che vede dandone una sua lettura personale, ovviamente, ma questo penso sia possibile solo se c’è una certa organicità in quello che si propone, qualunque cosa sia e sotto ogni aspetto: drammaturgico e coreografico.
    Comunque alla fine del seminario abbiamo avuto tempo per parlare, e questo argomento è stato il centro della discussione. Quello che ne è venuto fuori è tutt’altro che lineare.
    Riguardo la situazione Italiana non credo sia poi così drammatica. Ci sono molte persone che conosco che fanno ricerche interessanti, a prescindere dal gusto personale, persone serie che portano avanti il loro lavoro con intelligenza e determinazione. Sono anche persone, però, che non hanno lo spazio che si meriterebbero, la visibilità necessaria per far si che non si parli solo di quello che non ci piace. …e se a Berlino lo hanno superato….beh, buon per loro.

  7. giuseppe says

    Ah, come concordo riguardo alle persone che fanno ricerche interessanti e che meriterebbero più spazio! :))
    Non sono d’accordo sul concetto di “a prescindere dal gusto personale” perchè attenzione: ricadiamo nel fatidico concetto di qualità che, abbiamo visto, crea tanti problemi! Il dilemma si risolve nel dare spazio a tutto e a tutti, e ciascuno vada a vedere quello che di più gli aggrada, come in tutte le città normali: elementary, my dear Watson!
    Riguardo Berlino, mi riferivo al fatto di aver superato il teatro-danza. Che poi ci siano persone che lo facciano ancora bene, infatti avevo scritto “scopiazzato bene o male dalla tedesca Pina!”, buon per loro! :))

  8. Manca la terza punta del triangolo, però: gli operatori. Non sta a loro scegliere chi far danzare? Perchè in Italia non fanno scelte più coraggiose? (i coraggiosi ci sono, ma vanno cercati col lumicino).
    Se ad esempio prendiamo il Gd’A lombardo, io trovo che la giuria abbia fatto delle scelte assurde: giovani danz’autori = giovane (intraprendente, rivoluzionario, irriverente) + danza + autore (creatore, artista). Sembra che le scelte dei giurati siano andate verso la “maturità” dell’artista e verso il prodotto meglio “confezionato”. Valentina Sordo avrebbe trovato lo stesso sbocchi dove piazzare il suo lavoro. Quindi perchè non fare una scelta più coraggiosa? Perchè gli operatori italiani sono vecchi e conformisti!

  9. Programmatori? Quali programmatori?
    Gd’A a parte, il settore dei programmatori in Italia è il deserto dei Tartari, i teatri che hanno una programmazione intelligente per la danza si contano sulle dita di una mano.

  10. Insomma il mio triangolo pitagorico diventa un banale segmento… 😉

  11. no, affatto. Invece è molto interessante questa figura geometrica, il triangolo, ai vertici del quale ci sono: il pubblico, gli operatori culturali e i programmatori. Sarebbe bello avere un triangolo equilatero dove queste tre forze si bilanciano e si sostengono vicendevolmente, mentre la figura che viene fuori da quello che viene scritto nei post è una forma impossibile, irregolare e sottile, fatta di una materia inconsistente, dove l’unica presenza davvero importante e viva è all’angolo di noi operatori Purtroppo siamo gli unici a sostenerla. Negli altri due angoli solo pesi morti.

  12. Riguardo alla possibilità di ‘ispirarsi’ al mondo dell’arte per trarre benefici (ipotesi lanciata anche da Lia), il Mei 2010, Meeting Etichette Indipendenti (www.meiweb.it), ambito musicale dunque, oltre ad aver presentato un anteprima al salone del Libro a Torino , ha organizzato appuntamenti nelle giornate del festival dell’Arte Contemporanea di Faenza all’insegna della musica made in Italy e della valorizzazione di alcuni luoghi della città. E’ interessante l’incastro strategico in eventi di arte più grossi e più strutturati, pensato proprio per creare una maggiore risonanza e valorizzazione di quel tipo di ambito musicale che vive anch’esso ‘schiacciato’ dal frastuono sanremese e altri generi più istituizionali.
    Se si riuscisse a creare questo tipo di incastro intelligente per la danza contemporanrea anche a Milano, considerando la forte presenza dell’arte contemporanea?
    Il Mei, oltre a ‘suonarsela’ al Festival Faenza Rock dunque, ha attivato MusicaLab, corsi nazionali (!) ad esempio su Musica&internet, in particolare sulle strategie e i modelli di business nel mondo della musica italiana. O incontri sui social network, cioè sui nuovi modi di fare promozione pubblicitaria a costo zero. Perchè la musica indipendente in Italia sta riuscendo ad organizzarsi? E noi, perchè no? Pensiamoci e…copiamo da loro! Che ne dite?

  13. vorrei riflettere su alcuni punti:

    1.la negligenza culturale: è vero, dati alla mano,i giovani italiani ignoranti bla bla bla, colpa della tv, di facebook (satanasso!!), delle veline( osiniur) di maria de filippi (hhhahahahah!!!) di vespa (bleaahhh!!!) della play station (maisiiiiia!!!!) del calcio (oddiosvengo!) del papa ( amen!) di moccia ( e qui chiudo la parentesi)…tutto vero(?), io però ho un immagine più rosea dei miei coetanei, forse sono ottimista ma il problema non sono i giovani ma le generazioni precedenti ( con tutto rispetto per gli anziani, le tribù primitive si si si, oddio sto di nuovo parlando male degli anziani!!!)….comunque, sarò fortunato ma le persone che frequento o che incontro sono tutt’altro che addormentate intellettualmente, però può essere che è una mia impressione.
    2.i laureati: non ci sto! cambiamo termine…votiamo i competenti in un settore ok….al di là della laurea…perchè il 50 % dei laureati che conosco hanno un cervello simile agli omogenizzati della plasmon!conosco intellettuali, scrittori favolosi non laureati che meritano di governare il mondo.
    3.la scuola: concordo, bruttini i programmi, parziali e approssimativi da alcuni punti di vista è vero….ma non generalizzerei.nuove leve di docenti di lingue straniere di informatica sono il nostro fiore all’occhiello…diciamolo.
    4.ma la cultura è appetibile?. concordo con lia, il concettuale italiano nella danza è solitamente assimilabile a chi non ha concetti…haimè…concordo con giovanni sulle possibili accezione di concettuale….concordo con giuseppe…il pubblico dovrebbe poter scegliere….ma riconcordo con lia: il pubblico è troppo deluso, io per primo! perchè spendere 15 euro al crt se al cinema la programmazione è più interessante e costa meno?
    5.il gda promuove cultura? a mbè questa è nuova…grazie per l’informazione!il gda secondo me si autopromuove per fini politici dando il contentino a gli sfigati di turno!za za!!!
    6.responsabilizzante?.lia io non ci sto!l’arte contemporanea differenza della danza ha un altissimo livello di scuotimento delle coscienze, di qualità e ricerca vera!la danza dovrebbe solo imparare dall’arte contemporanea. l’ambiente coreografico al 90% è composto da ballerini che dopo aver fallito la carriera ripiegano sulla creazione. la loro cultura si ferma al 5-6-7-8!!!sono mummie, animali da passeggio, e mi prendo tutta la responsabilità di ciò che dico…
    7.l’idea del Mei mi piace.

  14. @david. grazie per aver concordato.
    quando parlo dell’arte contemporanea non mi riferisco al ruolo dell’artista, ma di quello dello spettatore. Come tutti sappiamo un’opera può essere letta a più livelli, io intendevo solo dire che uno spettatore davanti ad un’opera di Cattelan può essere folgorato e tuffarsi a capofitto dentro al mondo in cui l’artista vuole portarlo, oppure può restare assolutamente indifferente e passare oltre. Ecco. Passare oltre: una cosa che in un museo o un’esposizione di opere d’arte puoi tranquillamente fare, ma invece in teatro diventa già più difficile senza farsi notare. Questo era solo un esempio per dire che allo spettatore teatrale si richiede attenzione e partecipazione. Stavo solo cercando di analizzare le dinamiche che si sviluppano nello spettatore che va ad una mostra d’arte contemporanea rispetto ad uno che invece sceglie di sedersi in una platea teatrale…
    Non volevo ASSOLUTAMENTE dire che l’arte contemporanea non responsabilizza, non mi permetterei mai di giudicare una forma d’arte così necessaria e intraprendente.

  15. Perdonami Lia ma nel tuo discorso riguardo allo spettatore, dimentichi il ruolo della performance cosi predominante nell’arte contemporanea! Cito un esempio piu’ recente e piu’ emblematico all’interno del discorso portato avanti fin qui: Abramovic con la sua ultima performance al Moma di NY!
    E con questo ho detto tutto.
    Ribadisco che, come siam messi, ci conviene ispirarci piuttosto che crogiolarci su della retorica come la ‘quarta parete’ del teatro! Insomma non abbiamo scampo: urge darci una mossa!! 🙂

  16. Sono d’accordo sull’ultima cosa che scrivi, sicuramente dobbiamo darci una mossa….anche se a dire la verità non mi sembra di fare altro da tutta la vita. Diciamo che non è mai abbastanza e questo è il momento giusto per mettere sul piatto tutte le idee possibili.
    Per quanto riguarda l’altro discorso a me sembra molto chiaro che ormai le contaminazioni tra i linguaggi sono diffusissime, e che fare un distinguo tra arte visiva e performativa, danza e prosa sia ormai un’impresa ardua. Il mio era solo un vano tentativo di analizzare la situazione e avanzare delle ipotesi sul PERCHE’ le persone preferiscono andare a vedere la Marina Abramovich della situazione, che fa una performance dal linguaggio estremo, piuttosto che andare a teatro a vedere la danza contemporanea, che a mio parere, in Italia, non è tutta cacca.
    Sono solo, ingenuamente, partita da quello che faccio io, Lia: se vado ad una mostra che non mi piace o che non capisco perchè non ho gli strumenti sufficienti per capirla allora giro i tacchi e me ne vado. Amen. Se vado a teatro e assisto ad uno spettacolo che non mi piace (cosa che mi è capitata tante volte), non mi alzo ma resto lì, perchè non me la sento di fare un’azione che vedrebbero tutti, disturbando tutti.
    Ecco. La quarta parete non c’entra nulla, ribadisco che stavo discutendo del ruolo dello spettatore/pubblico, e non dell’ artista.
    Per non tralasciare nulla dovremmo iniziare una complessa discussione, ma non mi pare questa la sede adeguata.

  17. D’accordo sulla complessita’ della questione. Formare un sorta di Bloomsbury group nel quale confrontarci e teorizzare? Estendo anche a Davide.

    Andiamo su un altro esempio concreto: Rue Louise Weiss a Parigi.
    Nel 1997 sei gallerie (Air de Paris, Almine Rech, Art:Concept, Jennifer Flay, Emmanuel Perrotin, Praz-Delavallade e Kreo) colpite dalla crisi dei primi anni ’90, decidono di approfittare degli affitti bassi del 13 arrondissement e vanno via dalla zona Marais (zona frequentata dai collezionisti). Avviano un esperimento radicale, decidono di condivider spese, lista di inviti e far convergere gli openings! E ha funzionato! La rue Luise Weiss attiro’ tantissima gente determinando anche un ritorno della Francia nella scena dell’arte dominata dalla Uk e gli USA.! Da paura!

    Noi abbiamo avviato http://www.s28dancefactory.eu! Com’e’ messa Vigevano dato che la conosci meglio? Magari riusciamo a creare un relazione collaborativa?

  18. Mah…come vuoi che sia messa? Male, è messa molto male. Noi siamo qui da solo un anno e mezzo e stiamo cercando di capire come muoverci. A luglio faremo una performance per presentare la nostra associazione alla città. L’UNICA associazione che si occupa di danza contemporanea di Vigevano. Qui è come un foglio di carta pulita, e questo è buono. Il problema è capire che tipo di spazi (in senso materiale e metaforico) possiamo occupare nella vita culturale di questo posto. Abbiamo idee e proposte, che stiamo sottoponendo e non molliamo…e vedremo cosa succede. Certo è che abbiamo dovuto ricominciare da zero in un posto che non ci conosce e quindi si procede per piccoli passi, lavoro permettendo.
    Per quanto riguarda l’esempio che hai riportato…beh, è esaltante! certo è che negli anni ’90 anche in Italia la situazione era diversa. Io posso riportare, per esempio, l’esperienza dell’Actor’s Studio, dove esiste una tavola rotonda permanente nella quale attori e registi si incontrano per mostrare i propri work in progress, per discutere, ricercare e collaborare insieme, senza una finalità performativa ma a puro scopo di scambio e ricerca. Una cosa, questa, che trovo molto interessante proprio per creare un tessuto tra le persone che possa permettere poi progetti più ambiziosi.
    Io, per l’esperienza che ho avuto, penso che la differenza la facciano le persone, e che in Italia attualmente non siamo pronti e propensi alla condivisione. A parole ci sono sempre tante cose in pentola a bollire, ma poi quando si tratta di mettere in pratica questi buoni propositi la tendenza è sempre quella di pensare solo al proprio piatto. Questo non lo dico per giudicare, ognuno avrà le proprie buone ragioni per comportarsi così, ma lo dico solo per esternare una realtà che io ho toccato con mano più volte.
    Quindi prima di pensare a progetti così ambiziosi credo sia necessario incontrarsi, scegliersi, avere fiducia l’uno nell’altro, altrimenti non si va da nessuna parte.
    Nel gruppo di cui faccio parte, per dirne una, siamo partiti in 13 e siamo arrivati alla fine a fare l’associazione in 3. Chiaro che lavorare nelle condizioni che sappiamo non è che sia auspicabile,e capisco che uno magari referisca dare la sua priorità ad altro, ma ho sempre avuto grandi difficoltà a coinvolgere gli altri nei progetti al punto da farli credere nell’obiettivo nello stesso modo in cui ci credevo io. Forse è stato un mio limite, o forse (e credo sia così), semplicemente si preferisce essere dei cani sciolti. Io da parte mia sono convinta che unirsi sia difficile, ma che anche porti dei vantaggi ed una ricchezza ineguagliabili.
    Chiudo se no mi dilungo troppo.

  19. La proposta di riunirsi fisicamente una tantum “alla Bloomsbury group” per cosi dire, compatibilmente con i propri impegni, era in vista di un semplice scambio di punti di vista. Un po’ come i “4 amici al bar” di Gino Paoli, con cadenza piu’ regolare per sondare un po’ megli temi come ad esempio la problematicita’ del pubblico.

    La questione di fiducia tra di noi colleghi e’ davvero un punto importante! Tant’e’ che e’ il tema del SoloinAz video e SoloInAz performance di quest’anno, proprio per sondare a che punto siamo. Il fatto che sia un nodo difficile e’ indiscusso ma e’ altrettanto vero che bisogna superare quest’ovvieta’ prima o poi. L’altra mia proposta di creare una relazione collaborativa alla Rue Louise Weiss, s’ispira a quella forza ma naturalmente si concretizerebbe con azione semplici (almeno all’inizio!) come ad esempio far convergere i tuoi stage con
    il lancio di un altro evento per corroborare entrambi. Il mio messaggio (che ha accompagnato i miei commenti) e’ ISPIRARSI per poi AGIRE consapevoli dei propri limiti.
    Non e’ difficile: la dance factory che abbiamo lanciato con Davide, Silvia e Luna e’ una realta’!

  20. il problema Fiducia è un problema cruciale…è il mio ostacolo numero uno…io capisco perfettamente lia, sono partito con 7 persone in compagnia oggi sono più o meno solo nonostante abbia un bel rapporto con alcuni dei miei ex performer ma guarda un pò…mi ritrovo solo non per incidente ma perchè mai come ora ho bisogno di lavorare solo…anche se la parola solo è assolutamente inesatta, vivo di osmosi con marco che cura l’organizzazione della mia vita e annalisa che scrive testi di qualità ad una velocità inenarrabile…chiaramente io sono fortunatissimo ad avere loro e la proposta della factory di giò e gius all’inizio mi è sembrata incomprensibile….perchè 2 sconosciuti vogliono condividere con me il loro spazio artistico-vitale?cosa vuol dire co-working?perchè questi parlano sempre in inglese mannaggia a loro?come un idiota sono rimasto un pò titubante…sai effettivamente è raro che un collega ti chieda di condividere anche solo un fazzoletto per soffiarti il naso…poi mi sono detto attenzione manico davide!stai diventando come quella gentaccia anche tu!ti stai chiudendo nel tuo orticello per paura di trovare l’ennesima pseudopsicopaticoamica da sestosangiovanni!!!non ti fidi più di niente e nessuno e stai diventando come la gente che detesti…attenzione davide manico!e allora ho ritrovato in me quel briciolo d’incoscenza indispensabile per fare il mestiere che ho scelto e ho accettato a gran voce…se andra male sarà l’ennesimo slancio utopistico di un gruppo di perditempo che avrà però tutta la fierezza e la dignità di un tentativo….se andrà bene ne godremo tutti.
    io non muovo un passo se non accetto di avere fiducia nella buona fede dell’altro…e dunque mi sto muovendo. credo nell’utilità del fronte comune, credo nella condivisione ( vedi un esempio milanese artkitchen). non credo nel provincialismo degli orticelli, sono una mina vagante perchè credo nel confronto e nel dibattito infine credo nell’utilità della Bloomsbury group ( e che è? ancora con st’inglese…).
    lia , “in italia non siamo pronti alla condivisione ” è una cacata pazzesca…diciamo che certi coreografi soprattutto a milano ci hanno portati a pensare questo (ed io e te ne sappiamo davvero qualcosa) però ci sono esempi in italia e nel mondo che vivaiddio dimostrano il contrario.

  21. W la repubblica (res publica: cosa di tutti!) Mai festa fu piu’ adatta al tema in questione.
    Effettivamente il partneriato solleva forti problemi. Da quando ci stiamo muovendo alla ricerca di fondi europei lo tocchiamo con mano ogni giorno. Ma ci hanno anche spiegato che esiste un partenariato hard (non porno, solo ‘duro’ – traduco per i francesisti) e uno soft (douce douce). Hard: condividi tutto, anche le tue idee, ed e’ qui che nascono gli scontri. Soft: condividi delle regole comuni all’interno delle quali ti muovi come vuoi. Condividi una ‘cornice’ comune. Questo funziona ed e’ un buon incipit. In arte e’ difficile collaborare, perche’ e’ necessario avere la maturita’ di sospendere il giudizio sugli altri – e abolire provvisoriamente il concetto di qualita’, mantenendo solo quello di fiducia come concetto-guida. E’ ormai chiaro a tutti (forse non a noi artisti, ma e’ un problema nostro) che la rete, la sinergia funziona. E solo le reti tra di noi possono incrinare i vecchi sistemi di potere.

  22. @Giovanni hai colto il nocciolo della questione.
    E’ esattamente quello che penso: la condivisione di idee non porta a nulla di buono. La condivisione di regole forse potrebbe essere una soluzione. Sospendere il giudizio purtroppo è molto difficile, io personalmente ci sto provando, giorno dopo giorno, ed è un lavoro profondo del sè, che però sta dando i suoi frutti. Senza giudizio si riescono a vedere le cose con la giusta distanza e lucidità, e l’astio acido viene meno.
    Non posso giudicare la scelta delle persone che hanno deciso di non collaborare con me (ancora questo giudizio…), chiaro mi dispiace, ma la vita è la loro ed è un problema mio quello di non essere in grado di lavorare da sola.
    Gli accadimenti personali di David non sono che una goccia nel mare, e io non credo di aver detto una cacata dicendo che non siamo pronti per la condivisione. Sono abbastanza emancipata dal pensiero comune da riuscire a pensare e credere in questo senza che nessun coreografo mi abbia convinta di ciò; i casi singoli sono tali,ma io preferirei parlare di un sentire comune. Non sento che colleghi che giudicano il lavoro di altri colleghi e credo che anche in un caso di partneriato soft ci sia bisogno comunque di una qualche forma di stima reciproca. Altrimenti viene meno anche la fiducia. parlo di valutazione e non di giudizio. E’ vero, studio28 è assolutamente aperto agli altri, io sono stata coinvolta più volte da loro, e questo è un valore aggiunto e una predisposizione più unica che rara, direi una mosca bianca in un mare di orticelli (che razza di metafora…)
    Questa mia non è una visione pessimistica della realtà, ma devo tenere conto di questa tendenza quando opero delle scelte, una visione che non deve essere ovviamente letta come un giudizio (!!!).

Speak Your Mind

*

dodici − 10 =