21 Novembre 2024

Alessandro Pontremoli a NID Platform: la danza tra arte e pratica

Consigliamo di usare delle cuffie e di unire all’ascolto la lettura del testo trascritto qui sotto per seguire meglio l’interessante contributo di Alessandro Pontremoli, docente all’Università di Torino e membro della Commissione Consultiva Danza del MiBACT.

Il concetto stesso di estetica presuppone coordinate storiche, sociali, culturali, filosofiche, che a mio parere non determinano più il punto di incontro con una pratica, la danza,  che ci ostiniamo a definire ancora artistica solo per inerzia e conservatorismo lessicale. Se vogliamo addentrarci sulla fotografia del presente, e del presente nazionale, qui ancora siamo imprecisi, nel definire un territorio che nell’ambito della danza forse comincia solo oggi a presentare caratteristiche identitarie storiograficamente definibili. Occorre quindi fermarci prima dell’aggettivo, e rimanere fermi al concetto di pratica, e da qui, da questo ancoraggio minimo ma concreto, ripartire per cercare di nominare di volta in volta la pratica della quale stiamo parlando. E questo perché arte ed estetica sono concetti che ereditiamo da una condizione romantica e borghese dell’agire poietico, che hanno funzionato unicamente in un periodo circoscritto tra Sette e Ottocento, e per di più in un territorio limitato della società occidentale in formazione. Secondo questo pensiero, esiste l’arte, ed essa ha il compito di dire l’indicibile o di annunciare, apocalitticamente, che c’è dell’irrappresentabile. Tuttavia questa visione, in verità assai poco rivelativa, dimostra tutta la sua indigenza di fronte all’avanzare della necessità, piuttosto, di attestare, testimoniare, l’inattestabile. Gli eventi inauditi e gravissimi, e i gravissimi drammi sociali del presente, obbligano ad un ripensamento radicale del rapporto tra poiesis e praxis, al punto da sovvertirne la gerarchia.
La domanda che dunque ci si deve porre oggi riguarda la legittimità del compito veritativo dell’arte, se di arte vogliamo ancora parlare, e di conseguenza del senso della sua esistenza. Un’arte si dà come materia investita di senso, si muove pertanto nel dominio del sensibile. L’arte è il corpo, che riveste un significato, o meglio un corpo dato ad un significato, e ciò presuppone l’essere di un senso che sia dato. Lo sforzo contraddittorio su cui  si agitano oggi in Italia le figure dell’arte della danza può essere descritto con tre caratteristiche.
Un modello rinascimentale della scena, abitato da oggetti e personaggi tra loro convertibili: teatri, biglietti, opere, autori, coreografi, danzatori professionisti tecnicamente preparati, pubblico pagante, mercato, direttori di festival, critica della carta stampata e affini, operatori della compravendita eccetera. Questo è un modello.
Due, ogni opera prodotta nell’ambito del nuovo millennio, si è mossa o nella direzione della negazione del paesaggio sopra descritto, o nella direzione di un consolidamento dello stesso.
Terzo scenario. Un’avanguardia di ritorno, tra i più giovani, soprattutto in Italia, con evidenti collegamenti europei, esplora territori più o meno nuovi, non rinnega la stratificazione storica, ma non la ripete, e si muove liberamente tra performance, non danza, e il ritorno moderato e non scontato ai valori propri della coreografia.
In base a questo principio, una delle punte di fuga di questo percorso è la cosiddetta Piattaforma della Danza Balinese. Il Festival di Santarcangelo di Romagna presentava quest’anno la danza unicamente in un contesto che definiva Piattaforma della Danza Balinese, dove si fa riferimento a tutta una stratificazione culturale-storica ma dove la danza balinese non viene assolutamente presentata, dove vengono presentate le punte più indefinibili, imperscrutabili e ineffabili della danza contemporanea italiana in un confronto dove vengono in qualche modo messi in discussione tutti i frame, tutte le cornici.
Questa rimane sullo sfondo di una rivoluzione apparantemente non attuabile, utopica, certamente in parte paralizzante, ma in ultima analisi anche feconda, perché solo parzialmente coinvolta coi meccanismi propri del mercato, che comunque inevitabilmente nessuna rivoluzione o avanguardia artistica è mai riuscita a superare. Il problema però è il superamento non tanto del mercato, quanto del modello estetico che abbiamo detto prima, quello sette-ottocentesco, che è ancora imperante. Credendo di averlo dismesso, vi si trova inevitabilmente invischiati.
Per la danza bisogna quindi tornare a riflettere sul concetto di pratica, una pratica che coinvolge la corporeità in una maniera completamente diverso dall’uso quotidiano di quel medesimo corpo. Si tratta di una pratica che si connota in base anche ai discorsi che sempre ad essa si accompagnano e che creano tipologie.
La danza contemporanea tuttavia è un linguaggio che vive di molte contraddizioni e spesso si dimentica di avere un’inevitabile ricaduta sociale. Se pensiamo per esempio alla danza nordamericana degli anni Sessanta-Settanta, dove tutto è già stato fatto, tutto è già stato rivoluzionato, tutte le barriere sono state infrante, quella generazione sembra solo in apparenza autoreferenziale. Generata originariamente dalla comunità del Village, e ancorata ad essa, in seguito allarga a dismisura la platea della sua imitazione, invadendo ogni spazio pubblico della città, dichiarando una vocazione politica. La pratica di messa in discussione di tutto è accompagnata da una messe di discorsi, da produzioni critiche che sono messe a disposizione del pubblico. Ciò contribuisce inevitabilmente a creare, e ad allargare, una fruizione consapevole. C’è una frase che mi colpisce sempre di Walter Benjamin, nella sua opera più famosa in Italia che è “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”: “Quanto più il significato sociale di un’arte diminuisce, tanto più il contegno critico e quello della mera fruizione da parte del pubblico divergono. Il convenzionale viene goduto senza alcuna critica, ciò che è veramente nuovo viene criticato con ripugnanza”. E qual è la soluzione che propone Benjamin? “Rendere le due cose spazialmente e umanamente più vicine”. Impossessarsi dell’oggetto, ma non in effigie, ma in presenza, dove la presenza del soggetto diventa più importante della presenza dell’oggetto osservato e contemplato. Perché la danza mantiene sempre una componente rituale e “cultuale”, direbbe Benjamin, che è in parte garanzia della sua parziale autonomia.
Di quale opera d’arte si parla nel nostro tempo? La si afferma con la presenza, ma la si indica unicamente in termini concettuali, entro coordinate nuove ed entro coordinate vecchie. Spesso avanzate punte di pars destruens si vendono entro spazi economico-espositivi tradizionali. La forza distruttiva spesso è del tutto stemperata dal condizionamento del mercato, o mantenuta inalterata per scelta politica, ma spesso molto distante dalla fruizione sociale. In Italia c’è un fragile, labile, simulacro di mercato, tuttavia la situazione non è poi così diversa dall’Europa. Le determinazioni e i condizionamenti sono creati in questo momento storico da chi gestisce questo labile mercato: gli operatori del settore, i direttori di festival e rassegne, gli organizzatori di circuiti, che rivendicano a sé la vocazione artistica e ciò accade con l’inevitabile quanto necessaria complicità necessaria di coreografi, danzatori e performer. Ma se da un lato questo crea una rete di contatti interessante, il rischio è che uno sguardo esterno faccia fatica a penetrarvi e a relazionarsi.
Per orientarci: territori. Credo tre nella mia visione personalissima.
Un luogo di conservazione e archiviazione vivente del passato, dal tradizionale al Novecento, ad opera dei loro stessi protagonisti. Il pubblico è la componente essenziale del processo creativo, e questo pubblico si attesta su un bagaglio di conoscenze e su un kit di strumentazione critico-conoscitiva solo in parte influenzato dal cambiamento e dalle evoluzioni, e quindi sembra comprendere questo territorio.
Secondo territorio, una terra di mezzo in cui si associa nuovo e meno nuovo, in cui con linguaggi conosciuti anche da un pubblico relativamente ampio si creano nuove suggestioni e intervengono per esempio di una sorta di neo-classicismo culturale, non necessariamente un neo-classicismo tecnico.
Terzo territorio, una terra incognita dove si cerca di mettere la parola confini, il territorio di alcune parole chiave per comprenderci: il territorio della danza d’autore, della non-danza, della dialettica tra performance e danza, della trasmissione del gesto, della community dance. Mette in evidenza il problema di qualificare come coreografie quelle pratiche che contestano e mettono in discussione con la loro fenomenologia le caratteristiche della danza come arte e come disciplina storica.

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